Un
uomo inventa, per un concorso, un cocktail dal nome "Yara&Sara".
Quando il giorno seguente apre i quotidiani si sente amareggiato. A
chi lo intervista dice: "Il
giornale l’ho buttato. Quel titolo sparato così, cocktail degli
orrori, associato al mio nome. Non mi andava che mio figlio lo
vedesse".
Già,
suo figlio. Anche Sara
e Yara "erano" figlie di qualcuno.
Chissà se questo signore si è mai chiesto se i genitori di quelle
figlie, che non ci sono più, avessero mai voluto che il loro nome
diventasse quello di un cocktail. Per di più, alcolico - e lo
sappiamo che flagello è l'alcol
per i giovanissimi. Giovanissimi, come erano queste due vite
rotte. L'uomo si difende, e dimostra così di non aver capito la
gravità del suo atto. La
mancanza di rispetto verso famiglie che
saranno per sempre dimezzate. Interrotte.
Va
avanti e dice: “Chi come me ama il proprio lavoro ...sa che
un cocktail è metafora di gioia, di vita, condivisione di sentimenti
profondi. Così ho pensato a Yara Gambirasio e Sarah Scazzi, ai loro
volti sorridenti nelle foto che quotidianamente vengono diffuse dalla
tv nel raccontarci dei drammi che dovrebbero far riflettere l'intera
società”
Qui
non c'è gioia, non c'è vita. C'è un dolore che in un attimo e per
un attimo è diventato eterno. E una morte tremenda. Quei
volti sorridenti sono stati fissati in uno scatto che non potrà
ripetersi mai più e sono stati sostituiti dalle fotografie
dei corpi senza vita "al vaglio degli inquirenti". Un frase
fredda come quella tragica fine. Corpi straziati che non
possiamo vedere, ma che dobbiamo immaginare per comprendere che
quella è una morte che vive. Che sporca la terra, la nostra stessa
esistenza e che si ripete ogni istante e per sempre negli incubi
dei sopravvissuti. Il ricordo di quei volti sorridenti
va tenuto stretto, ma il tempo scolora tutto. Ecco perché non
possiamo dimenticare, ecco perché non dobbiamo mai,
mancare di rispetto a quelle famiglie. E non è dando loro voce,
spazio, anche televisivo, che gli si fa del male. Anzi, loro chiedono
che quel dolore sia visibile e condiviso.
Le
faccio una domanda, a lei che ha inventato questo cocktail, risponda
nel cuore, risponda a se stesso se non vuole rispondere a me:
"provi
a immedesimarsi in quei genitori in un sentimento che si chiama
empatia, si metta nei loro panni ( lei è padre), immagini
giovani e meno giovani che ridendo, scherzando, vivendo bevono un
liquido alcolico con il nome di un figlio. Non messo lì a caso, come
per un caso di omonimia. Ma messo perché è
stato ucciso".
Come
si sente adesso?
Ecco,
io non la giudico, cerco però di fare riflettere lei e non solo. Lo
faccio perché mi sono avvicinata a quelle vite spaccate, a quelle
persone che hanno subito la più grande delle ingiustizie e vorrei
che ci fosse più rispetto. Più attenzione. Più senso di
responsabilità verso di loro, e verso ciò che con le nostre azioni
comunichiamo ai nostri figli.
Siamo
legati uno all'altro. Tutto ciò che facciamo produce senso che va
nel mondo e lo costruisce, lo cambia o lo spezza. Dobbiamo imparare a
fermarci un istante. Riflettere. Andare oltre il nostro naso.
Comprendere che gli altri non sono, come diceva Pessoa, “solo
paesaggio”. Sono vite. Esistenze. Mondi.“Ciò che vediamo non è
ciò che vediamo, ma ciò che siamo”.
Non
dimentichiamolo mai.
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